La comunicazione non è una scienza esatta.

La recente polemica sull’intervista di Guido Barilla a Radio24 apre un interessante spazio di discussione sul delicato rapporto tra comunicazione d’impresa e comunicazione tout court. E soprattutto dimostra quanto importante sia diventato il web come mediatore tra impresa, mercato e società.

Una volta, quando non c’erano i social media, un caso come quello della citata intervista non si sarebbe mai trasformato in una questione globale come è invece successo in questi giorni. Il processo di comunicazione aveva una verso e una gerarchia ben definiti e una struttura assai concentrata: pochi attori che determinavano i contenuti a cui si poteva dare o non dare diffusione. Non si trattava di censura, ma di un filtro selettivo agli argomenti e alle posizioni che risultavano rappresentati nella comunicazione di massa.

Con i social media l’equilibrio del potere nel processo globale di comunicazione si sposta verso gli utenti finali: sono questi ultimi che esercitano il ruolo di filtro e/o di moltiplicatore delle questioni rilevanti. O meglio, sono gli utenti finali che contribuiscono a determinare l’importanza delle questioni: non ricevono più direttive dall’alto, ma contribuiscono dal basso a selezionare quali argomenti si diffondono e quali no. Il potere della massa è amplificato da strumenti (e.g. i link), risorse (e.g. Google translate), piattaforme (e.g. Facebook) e comunità (e.g. forum) che rendono i singoli individui straordinariamente potenti rispetto a pochi anni fa. Questo potere non si affronta con tecnologie o procedure gerarchiche: nessuno può controbilanciare la forza del popolo del web, neanche le grandi potenze nazionali. In alcuni paesi totalitari esiste la censura anche sul web, ma ciò non ostante le notizie circolano lo stesso. E infatti in questi paesi esiste anche una manodopera che svolge un lavoro di contro-informazione capillare e distribuito cercando di smontare e frazionare l’effetto della comunicazione peer-to-peer con i suoi stessi strumenti, ma non con la stessa efficacia.

In tale contesto, una ingenuità come quella di Guido Barilla si trasforma in un disastro dal punto di vista comunicativo e commerciale, con il fondato rischio di perdere clienti finali e clienti commerciali. Le risposte immediate a questa crisi d’immagine sono state frettolose e non pianificate: il video in lingua inglese sulla pagina Facebook USA, le contro-interviste in cui si è cercato di riallineare la comunicazione sulla famiglia e del ruolo della donna.

D’altra parte, questo episodio potrebbe paradossalmente far bene alla Barilla se riuscirà a convincere l’opinione pubblica di aver commesso un errore che intende riparare. Se farà del suo meglio per tornare ad essere un marchio che unisce e non divide (o discrimina). Se sarà in grado di dimostrare che essere leader in una cultura tradizionale e tradizionalista come quella italiana in merito alla famiglia non esime dalla responsabilità di fare i conti con la contemporaneità e di porsi in modo disinibito e illuminato nei confronti della società e del mercato. Facendo comprendere ai propri clienti che non si torna indietro sulle conquiste sociali e civili. E se anche non ci sarà spazio per i gay nella pubblicità Barilla non sarà per questioni morali o ideologiche, ma per una questione tecnica, ovvero che la segmentazione del mercato della pasta non passa attraverso le preferenze sessuali dei clienti, ma attraverso altri e più efficaci indicatori.

Tutto ciò se davvero l’impresa sarà in grado di imparare che la comunicazione contemporanea è in misura crescente trainata dai network e dai media sociali che non possono essere manipolati, istruiti o controllati. La comunicazione contemporanea assomiglia più a un patto sociale di reciproco rispetto e considerazione: l’impresa ha diritto di cittadinanza nel web sociale solo se dimostra di meritarselo sul piano etico, ma soprattutto professionale, dimostrando responsabilità e serietà tutte le volte che si mette in comunicazione con il pubblico.